Slowine
Slowfood
La tecnica di usare meno tecnica
Sabato
sera presso Viterbo prima dell’incontro sul libro di Alice Feiring,
siedo a un tavolo con una bottiglia di vino che ho scelto tra le molte
gentilmente messe a disposizione dal ristoratore. Sono nel centro
storico della splendida città medievale. Insieme a me alcuni amici di
Slow Food Roma che sono incuriositi da quel vino a base trebbiano dai
profumi scontrosi, erbacei e floreali con volatile a sostegno, bocca
succosa e articolata di garbata disposizione gastronomica. Si avvicina
un signore con cappello bianco e giacca blu che non conosco ma è amico
dei miei commensali. Getta un occhio alla bottiglia e in simpatico
romanesco, mi incalza «Quella è buona da buttare nel lavandino, quel
vino non è corretto tecnicamente».
Non ricordo se ha usato la parola lavandino oppure un altro termine più aderente all’idioma della capitale, ma quello che davvero mi lascia perplesso è il fatto che un vino per essere apprezzato e non schifato debba per forza essere soltanto CORRETTO TECNICAMENTE.
Mi fermo sulla soglia della discussione sui vini naturali. Ma, pensare che a oggi i parametri di giudizio debbano poggiare soltanto sulla corretta esecuzione enologica di una vinificazione mi pare anacronistico e riduttivo.
Si torna al tema avvincente e ampiamente battuto della formazione del gusto personale. Quanto siamo disposti ad accettare una deviazione dalla norma della grammatica gustativa se in cambio potremmo ottenere la narrazione profonda di un territorio e della sua declinazione da parte di uno degli interpreti?
Un produttore di vino è chiamato a dirigere un processo complesso che parte dalla fondamentale gestione agronomica del vigneto. L’intervento enologico è parte di questo processo, anch’esso basilare, ma non può essere scomposto da ciò che lo ha preceduto. Se considero l’enologo un dottore del vino, la sua presenza è necessaria solo nel caso si possano presentare dei problemi di vinificazione. Altrimenti chi impone il suo intervento, quando il vignaiolo ha nelle mani e nella testa l’obiettivo da raggiungere con le sue uve?
Dunque ragionare su una bottiglia deve tenere conto di una serie di complesse questioni che chiamano in causa le intenzioni di chi produce e il gusto di chi assaggia. Un miliardo di variabili che amplificano a dismisura il piacere di leggere e parlare di viticoltura, con educazione se possibile.
Non ricordo se ha usato la parola lavandino oppure un altro termine più aderente all’idioma della capitale, ma quello che davvero mi lascia perplesso è il fatto che un vino per essere apprezzato e non schifato debba per forza essere soltanto CORRETTO TECNICAMENTE.
Mi fermo sulla soglia della discussione sui vini naturali. Ma, pensare che a oggi i parametri di giudizio debbano poggiare soltanto sulla corretta esecuzione enologica di una vinificazione mi pare anacronistico e riduttivo.
Si torna al tema avvincente e ampiamente battuto della formazione del gusto personale. Quanto siamo disposti ad accettare una deviazione dalla norma della grammatica gustativa se in cambio potremmo ottenere la narrazione profonda di un territorio e della sua declinazione da parte di uno degli interpreti?
Un produttore di vino è chiamato a dirigere un processo complesso che parte dalla fondamentale gestione agronomica del vigneto. L’intervento enologico è parte di questo processo, anch’esso basilare, ma non può essere scomposto da ciò che lo ha preceduto. Se considero l’enologo un dottore del vino, la sua presenza è necessaria solo nel caso si possano presentare dei problemi di vinificazione. Altrimenti chi impone il suo intervento, quando il vignaiolo ha nelle mani e nella testa l’obiettivo da raggiungere con le sue uve?
Dunque ragionare su una bottiglia deve tenere conto di una serie di complesse questioni che chiamano in causa le intenzioni di chi produce e il gusto di chi assaggia. Un miliardo di variabili che amplificano a dismisura il piacere di leggere e parlare di viticoltura, con educazione se possibile.
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